Quei buchi nell’acqua

abo
5 min readJul 25, 2016

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Un’intervista parte dello speciale estivo sulle “grandi opere” di A/Rivista anarchica n. 409. Gli altri testi (linkati in calce) sono a cura di Pippo Gurrieri, Comitato popolare contro le trivelle di Licata (Ag) e Augusto De Sanctis.

In questa quinta puntata del nostro approfondimento sulle grandi opere, ci occupiamo delle trivelle. E lo facciamo all’indomani di quella che noi riteniamo la trappola/referendum. Un attivista milanese (contro Expo, ma non solo) evidenzia le connessioni tra lotta contro le trivelle e la filiera produttiva e distributiva delle fonti fossili. Dopo il ponte sullo Stretto e il Muos, con le trivelle si chiude la trilogia siciliana curata da Pippo Gurrieri. Il comitato popolare di Licata contro le trivelle racconta la propria esperienza. Un militante del movimento abruzzese anti-Ombrina allarga il panorama, non solo geografico.

A che punto siamo?

intervista della redazione
ad Alberto “Abo” Di Monte

Come continuano le lotte contro le trivellazioni in mare dopo che la trappola del referendum, com’era prevedibile, è scattata? Lo abbiamo chiesto a un attivista No Expo, tra i curatori del libro Sblocca Italia. Dalle trivelle agli stoccaggi di gas.

Sono passati due mesi dal referendum No Triv dello scorso aprile, facciamo un po’ il punto della situazione. Come continuano le lotte dopo l’esito della consultazione?

I primi quindici giorni, al netto dei documenti già scritti sull’alto valore democratico della consultazione e sul peso dell’opinione “da rispettare” di milioni di cittadini, sono stati una batosta. Lo sono sempre. Sì, perché chi vota con convinzione, magari partecipando attivamente a campagne e banchetti, non è poi diverso da chi si è sentito tirato per la giacchetta… in tarda serata sono tutti a fissare lo schermo ascoltando con un mix di noia, trepidazione e ansia l’esito in diretta tv.
Il punto non è questo. Negli ultimi mesi, anche grazie alla promozione di portali d’informazione quali www.stopdevastazioni.wordpress.com per la prima volta abbiamo visto mettere in connessione le lotte contro le trivelle, quelle contro le condotte, quelle che insistono sugli stoccaggi e gli impianti di raffinazione. La saldatura dei conflitti aperti lungo tutta la filiera produttiva e distributiva delle fonti fossili è la chiave di volta che si aspettava. Ancora oggi non è un fatto semplice né scontato ma ritengo che questo inciampo possa insegnare il “come” non si può raggiungere un obiettivo (puntando su argomenti che interessano e riguardano una parte del Paese) e su quali siano le alleanze da intraprendere per ricostruire dal basso un’opposizione radicale al continuo sostegno ad un sistema energetico (ed energivoro) che proprio a ridosso del 17 aprile, da TempaRossa alle coste liguri, ha mostrato con drammaticità il suo carattere nocivo, corrotto ed anacronistico.

I sostenitori del referendum erano convinti che la votazione, nonostante vertesse su un aspetto minore, potesse dare visibilità al problema e unire l’opinione pubblica intorno ad una lotta. Altri, come noi, pensavano (e pensano) che lo strumento referendario fosse una trappola. Che effetti pensi abbia avuto il referendum, tanto più alla luce del mancato raggiungimento del quorum?

Il referendum dello scorso 17 aprile fu convocato da nove regioni, aveva quindi un profilo istituzionale e portava con sé un’ambivalente vicinanza con le elezioni amministrative di giugno. La potenza dello strumento referendario poggiava quindi su basi diverse da quella della sovranità popolare dei comitati che pure lo hanno in molti casi sostenuto pubblicamente per convinzione o opportunità. Per comprendere appieno cosa non ha funzionato bisogna ripartire da qui. Nelle settimane precedenti al voto (giusto nelle ultime a dire il vero) e nei bilanci successivi, il confronto tra le parti ha svicolato questo terreno di riflessione concentrandosi da una parte sui contenuti del quesito, dall’altra sulla caratura dello strumento: pratica sussunta o baluardo di democrazia diretta? No alle trivelle o stop al governo?
Ecco, come suggerivo in un precedente contributo per A Rivista (n. 406, aprile 2016) insisto nella convinzione che quella di aprile sia stata un “fuga in avanti” delle regioni con tre difetti grossolani: tempi frettolosi, una collezione di quesiti incapace di sopravvivere alle forche caudine della ragion di stato e di governo, una mancanza di coraggio nel prefigurare alternative per l’approvvigionamento energetico e il mondo del lavoro.
Non parlerei tuttavia di “effetto boomerang”, la disaffezione per la Politica maiuscola e le sue cinghie di trasmissione (e con essa l’abuso nella convocazione di referendum ogni pochi anni) hanno da tempo accresciuto la distanza dal sospirato quorum.
Chi ci ha creduto si è “contato”, riscoprendosi condizione necessaria non sufficiente, chi, pur d’accordo con le ragioni non ha ritenuto di sostenere l’appuntamento, ha avuto un’occasione in più per evidenziarne i limiti e spostare l’equilibrio politico dalla tutela del turismo e delle belle coste a quello della transizione energetica.
Le scommesse sono aperte. Di qui a un anno un nuovo pacchetto di referendum, questa volta sociali, è in arrivo e il suo quesito su pozzi e trivelle parla senza mezzi termini di stop a qualunque tipo di concessioni lungo tutto lo stivale.

Come accade per molte altre lotte, anche quella No Triv viene bollata da alcuni come NIMBY (Not in my back yard, “non nel mio giardino”), cioè come una critica legata solo alla vicinanza dell’opera al proprio territorio, che non propone alternative concrete. Ma chi ha seguito le lotte No Triv sa che è l’intero sistema produttivo basato sui combustibili fossili ad essere messo in discussione. I movimenti propongono una transizione energetica. Ma in cosa consiste praticamente?

Vorrei fosse così, in parte lo è. Non dobbiamo però, non in questo spazio, forzare l’interpretazione sullo “stato di salute” delle tante soggettività che battono bandiera “No Triv”. I segnali positivi sulla maturità del Movimento ci sono tutti… ma non dappertutto. Non è certo dall’ostile Lombardia che si possono indicare con agilità i punti di forza e debolezza, né è compito di questo contributo attribuire patentini di radicalità a questo o quel tassello della lotta. Quel che è certo è che il passaggio dagli argomenti “coste, turismo, tipicità” a quello “salute, clima, territorio” non era un fatto scontato, ma come anticipato è un passaggio fondativo per due motivi. In primo luogo perché da oggi si torna a parlare di qualcosa che ci tocca tutti: la salute. In secondo luogo perché il baricentro della scommessa trasla dall’umano all’ecosistema che ci ospita: territorio e clima quindi. In terzo luogo, e non procedo per importanza, il passaggio politico necessario e oggi possibile è quello dall’opposizione alla costruzione di alternative al sistema energetico in direzione di sostenibilità del pacchetto di fonti, decentramento della produzione, agevolazioni all’autoproduzione e gestione comunitaria delle infrastrutture al posto dell’oggi labile binomio pubblico-privato.
Nulla di scontato, forti i nemici da affrontare, troppi gli ostacoli da schivare, ma grandi possibilità di trasformazione all’orizzonte.

abo | luglio 016 | apparso su A/Rivista n. 409

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