Un risultato scritto, cancellato, quindi ripassato con mano incerta. È questa la prima impressione all’indomani dello spoglio elettorale. Sei mesi fa, quando Beppe Sala annunciò la sua candidatura alla poltrona di primo cittadino, supporter e detrattori erano uniti dalla consapevolezza che Mr. Expo avrebbe portato a casa il risultato. Del bilancio economico del big event nulla era dato sapere, i mancati pagamenti ai fornitori della kermesse già minacciavano di mandare gambe all’aria più di un’azienda e l’ardua conta dei visitatori paganti raccontava di un esito ben diverso dalle rosee previsioni di sei mesi prima.
Previsioni azzeccate dunque, quelle di quanti, in tempi non sospetti, avevano proiettato uno sguardo severo sulla figura di questo “manager tra i manager” che, saltellando da Pirelli a Telecom, non si era fatto mancare un ruolo di city manager con la giunta destrorsa nel biennio 2009–10. Eppure nessuno di questi argomenti fu scomodato dagli altri contendenti delle primarie, cosa che fece piuttosto il rampante (ma presto dimenticato) Corrado Passera, poi rientrato nei ranghi della compagine di centrodestra. Con l’assessore Majorino gregario a sinistra, e la beniamina del sindaco uscente Pisapia “Balzani” a dare copertura alle primarie più teatrali di sempre, Sala fu incoronato candidato sindaco alla “città metropolitana” di Milano nella notte del 7 febbraio.
Il mese successivo si scoprono le carte: il centrodestra si unisce sotto la stella di Stefano Parisi, che, apprezzato da Renzi, arriva dalla Cgil, ha un timbro pacato e una non comune indipendenza dai partiti; al centro del centrosinistra l’ex giunta arancione vira in direzione ostinata e securitaria con Beppe Sala che piace invece a Berlusconi. I cuori non si scaldano quando i programmi non si differenziano, e, al di là del retroterra culturale, anche il palleggio tematico è quello: periferie, eventi, riqualificazione, spazio ai privati, sicurezza, verde. Non che nei manifesti elettorali una sola proposta abbia trovato spazio tra un faccione e l’altro. Facciamo un passo avanti. Il passaggio di consegne con Pisapia è complicato dallo strappo, poi recuperato, con una sinistra radicale alla disperata ricerca di un volto credibile, e dalla scomparsa di ogni velleità arancione, quella che per alcune ore aveva avvicinato la distanza che separa Milano da Napoli, solo cinque anni fa. L’esito del primo turno parla di una città ferma: con la sola eccezione di Bologna nessun’altra grande città al voto restituisce un esito così… polveroso. Più che una conferma dell’antico bipolarismo destra-sinistra, Milano appare un territorio bipolare: tanto più evoca una retorica startuppara, un’immagine turistica e internazionale, una disponibilità al cambiamento, quanto più restituisce lo spettro di una dinamica politica anni Novanta. Il firmamento che “illuminerà” nei giorni a venire Torino e Roma non splende a Milano, dove il M5S conferma una performance in tono minore, eredità di una colpevole assenza di protagonismo. La sinistra non cooptata fa una battaglia identitaria ma sconta la timidezza politica del quinquennio alle spalle, i radicali passano in venti giorni dalla stesura di un ricorso per ineleggibilità al sostegno a Beppone che incassa endorsement senza clausole da una sempre più evanescente Sel. Dall’altro lato dell’anfiteatro comunale la Lega tiene botta senza lo sperato “effetto Salvini”, Fratelli d’Italia scompare e Forza Italia riappare.
In ogni caso il dato più eloquente, quello che al di là del dato percentuale racconta la perdita di consenso di tutti gli attori in campo, è l’impennata dell’astensionismo. Il numero di votanti crolla di tredici punti percentuali rispetto alla precedente tornata comunale e il ballottaggio non fa che aumentare questo divario. In fondo, l’unico dato che collega nuovamente Milano a Napoli è questo: l’exploit di de Magistris e il “50% +1” di Sala ci consegnano due città che si apprestano a essere governate entrambe col consenso del 25% del corpo elettorale, un po’ pochino, e le analogie finiscono davvero qui Con 90 mila voti in meno di quelli portati a casa da Pisapia cinque anni fa, e 17 mila voti di stacco dalla controparte (che sugli scranni si traducono in 29 consiglieri su 48 membri del parlamentino), Beppe Sala si appresta oggi a comporre una giunta di conferma degli ex assessori (Majorino, Maran, Rozza, Tajani…) e di apertura a Linus, Bonino e scopriremo a breve chi altri. Il Pd ne pretende sei su dieci di assessorati e le sue bandiere già sventolano nel cortile di Palazzo Marino mentre i fan intonano una distonica Bella ciao.
Dietro il carteggio dei candidati ai ruoli prestigiosi, su cui non mi dilungo oltre, si gioca in queste ore la partita della visione metropolitana. Su scali ferroviari, caserme dismesse, viabilità e nuova edilizia si andrà presto a verifica delle promesse fatte da Sala ai costruttori, mentre la triade moschea, profughi e mobilità garantirà nelle prossime settimane una cartina al tornasole dell’idea di città pubblica sottesa al dream team del manager renziano. I movimenti e i comitati che avevano guardato con favore (se non all’elezione quantomeno al cambio di regia dopo vent’anni di destre) restano ai margini della competizione amministrativa, non interrogati dall’uomo “del fare” piuttosto che della partecipazione democratica. Chi spinge per riaccendere i riflettori sulla qualità politica dell’esperienza Expo è considerato fuori tempo massimo, eppure qualcosa significherà se tre quarti degli “aventi diritto” non hanno manifestato il loro sostegno all’uomo che aveva scelto uno staff quasi interamente toccato da indagini e arresti, da appalti sospetti e bonifiche mancate, dalla continua richiesta di poteri speciali e sdoganamento del lavoro non retribuito, sempre nella cornice dell’Esposizione che resta la sua più recente esperienza manageriale.
L’opinione pubblica si balocca altrove: del passaggio di ben cinque municipi su nove a destra (dopo un lustro monocolore) non resta che la polemica sulla bandiera arcobaleno tolta in tempo record dagli uffici di zona 2 in quota Lega, un gesto retrò che è invece servito a riattivare un po’ di orgoglio di cittadini nuovamente disponibili a usare i loro di balconi piuttosto che indignarsi e magari, da presto, a usare le strade ancora prima delle piazze di questa città. La lettura della crisi, la capacità di quest’ultima di impoverire e semplificare i territori non passano e non passeranno dal dibattito istituzionale, ma toccano ogni giorno vecchi e nuovi poveri, bisogni e desideri di un milione e trecentomila abitanti, vittorie e inciampi delle soggettività più interessate a comprendere e superare il momento elettorale piuttosto che arenarsi nella presa d’atto della sua ineluttabilità. Perché la giunta “del fare” che viene non capirà che questo linguaggio: quello di chi sin d’ora si rimette in moto per agire (passatemi il transitivo) una vita urbana incompatibile con la distopia di una Milano che quanto più si vuole esclusiva, tanto più si dimostra escludente.
abo | 22.06.16 | apparso su NapoliMonitor