Mi dici navigli? Ti rispondo NO al “luna park” per turisti.
Il solco che collega territorio e città, produzione e consumo, ma anche storia e struscio, dentro e fuori le mura ha un nome ben preciso: navigli.
Nati per irreggimentare le acque di Seveso, Lambro e Olona, hanno costituito per quasi mille anni una fitta trama di rotte di assoluta rilevanza per la circolazione di prodotti agricoli, semilavorati, idee e…chianche. Venne poi il tempo della modernità, del mito futurista della velocità automobilistica, ma anche di una nuova consapevolezza dei problemi legati al ristagno delle acque in assenza di una solida rete fognaria. Di lì alla seconda metà del Novecento, i celebrati navigli del Duomo e di Leonardo ripiegarono (lo so, è un termine infelice..) sulla sola funzione irrigua, perdendo un po’ alla volta il ruolo di infrastruttura viaria e di commercio.
Negli anni del boom economico la Darsena di Milano smarrì la vocazione portuale, sorsero i ponti a raso sul Naviglio Martesana e anche il “pavese” fu dichiarato progressivamente non navigabile. Nel frattempo la cerchia interna era stata prima coperta nel corso del Ventennio, quindi definitivamente interrata. Dal 1976, uno dei suoi rami ospita la metropolitana verde nel tratto che dalla stazione di Cadorna punta in direzione sud.
I navigli “urbani”, piccolo cuore di un sistema di canali che si estende per 170 chilometri, non manterranno forse il fascino di un affaccio a pedali su Ronchetto. Negli anni hanno perso prima la funzione di collegamento idraulico, quindi il legame con la città medievale, in tempi più recenti l’originale specchio d’acqua della Darsena e infine anche i barconi “abusivi” all’imbocco del pavese che erano a questo punto parte integrante del paesaggio urbano. Siamo così alle elezioni comunali del 2016. Expo 2015 è finito col suo strascico di indebitamento, infrastrutture inutili e nocive, gestione commissariale dell’evento e del territorio che l’ha ospitato, lavoro non retribuito…in molti l’avevano sospettato, in pochi hanno avuto la pazienza di mantenere un punto d’attenzione sulla sua legacy, quella che più prosaicamente noi chiamiamo “eredità”. Beppe Sala, futuro sindaco di Milano, fa della riapertura dei (rigorosamente al plurale!) navigli uno dei suoi cavalli di battaglia, la conferenza stampa sul tema è ospitata da un circolo PD che riporta ancora la scritta “Circolo familiare d’unità proletaria”. L’ex AD di Expo 2015 promette un referendum cittadino, rimarcando l’importanza di trasparenza e partecipazione per un’iniziativa che allacci passato, presente e futuro di questa città che si vorrebbe metropoli.
Un passo indietro. Nel novembre 2014 il Seveso, come avviene puntualmente più volte all’anno, esonda. Gli attivisti della vincente lotta #NoCanal invitano il Comune di Milano a utilizzare per il bene comune i quattrini del progetto “Via d’acqua” (canale cementizio inviso agli abitanti della periferia ovest e definitivamente affossato dall’operato della magistratura) e stornarli sulle fragilità del sistema idrico milanese. Il 26 gennaio successivo anche il Comune si pronuncia in tal senso con una mozione. Solo un anno più tardi si scoprirà che proprio l’AD Sala, il grande amante dei navigli, preferì utilizzare quei fondi per coprire gli extra-costi del Padiglione Italia, in seno all’esposizione universale meneghina. Parliamo di poche decine di milioni di euro, una goccia nell’oceano finanziario di Expo e della città, eppure un fatto utilissimo a chiarire le posizioni degli attori in campo.
Siamo ai giorni nostri: Beppe Sala è diventato sindaco e il referendum promesso, manco a dirlo, non s’è mai fatto. Al suo posto la giunta in carica ha promesso un débat public alla francese, istituto che giace da tempo nei meandri della burocrazia italiana ma è stato malamente applicato al solo caso della tangenziale di Bologna. Il responsabile incaricato del procedimento è la stessa persona, che poi è un torinese. L’assessore che più si espone è quello alla partecipazione, faccia da bravo ragazzo ma certamente non un decisore sugli scranni del consiglio comunale.
In giugno i documenti vengono caricati e parte in pompa magna il palinsesto di consultazioni estive che, accompagnato da un battage mediatico senza precedenti, accompagna a passi da gigante in verso la votazione del progetto.
Quello che abbiamo capito? I navigli (quelli al plurale, addirittura il “sistema navigli”) non sono oggetto della proposta. Qui si parla di quel che resta della cerchia interna e del tratto appena precedente di Naviglio Martesana. All’interno di questo pacchetto, il “débat” e quindi il Consiglio, devono esprimersi sul solo progetto di apertura di 5 vasche (2,2km di lunghezza su un totale di 8) con un costo preventivato di almeno 150 milioni di euro.
Non si sa come, quando e dove verranno reperiti i fondi, l’unico punto veramente sensato è quello della riconnessione idraulica tra nord e sud della città. Per evitare le esondazioni? No, più che altro ai fini irrigui e di stabilità del sistema. Per il problema esondazioni l’acqua dovrebbe comodamente fare ingresso, in caso di piena, per scolmare fino a 40 metri cubi al secondo…ma anche questa volta sono previsti ponti a raso, e, sotto di essi, le barchette per i turisti. Le due funzioni si rivelano ad una prima analisi concorrenti e non convergenti come inizialmente promesso.
Le domande scomode non tardano ad arrivare laddove fa più male. Ve ne cito qualcuna?
Come può trattarsi di un’iniziativa per la mobilità dolce (così viene raccontata) quando ci sono dieci conche da superare per un totale di oltre due ore di navigazione?
Perché decidere oggi uno stanziamento di questa entità senza alcuna garanzia che gli altri 400 milioni necessari (per i soli 8 chilometri di cui sopra) saranno disponibili domani?
Perché inficiare l’utilità pubblica dell’opera insistendo sulla sua fruibilità a scopo turistico, per altro minata dall’effetto tunnel dovuto alla morfologia dell’invaso?
Che senso ha aprire in piena estate un costoso percorso di consultazione su un progetto che, per bocca dello stesso sindaco e sulla stampa locale in forme assolutamente cristalline, è già deciso da un pezzo?
Non sono che alcuni esempi della fallacia di una riapertura del naviglio che un po’ tutti vorremmo ma che, oggi, viene rievocata nel peggiore dei modi, costringendo ad una polarizzazione delle opinioni sull’immaginario della Milano città d’acqua, piuttosto che sulla qualità di un progetto completo e documentato. C’è però un aspetto ulteriormente pruriginoso e maledettamente interessante per capire quali suggestioni, economie e visioni della città, animano nel profondo la metamorfosi in corso. Per arrivarci dobbiamo addentrarci tra le centinaia e centinaia di pagine dello studio di fattibilità dell’opera. Qui, tra le righe dell’analisi costi-benefici, si annida il nostro problema più grande.
La domanda di ricerca dell’analisi C/B, nella testa del lettore non specialista, suona più o meno così: se mettiamo a budget risorse pubbliche che potrebbero pure essere allocate altrove (in un contesto fatto di cento priorità) quali sono i benefici per la città? La risposta, e parliamo di un documento ufficiale commissionato a eminenti docenti del Politecnico, suona più o meno così: se tu fai un’opera che abbellisce, le case prospicienti si apprezzano, i proprietari si arricchiscono e, a cascata, la città tutta ne trae beneficio. In altre parole usare risorse pubbliche per un’opera di cui godono gli abitanti (pochi) e i fruitori (turisti) del solo centro, fa del bene a tutti nella misura in cui arricchisce i pochi che, già forti di una rendita di posizione, possono far girare l’economia.
Qui bisogna fermarsi. E respirare. Questo bigino di neoliberismo non è stato sconfessato in occasione degli incontri pubblici, di fronte alle tante richieste di spiegazioni ma addirittura è stato recentemente riproposto per validare altre brillanti iniziative urbanistiche dello stesso Comune di Milano.
In quella che da più parti dello stivale viene vista come una zona franca di fronte all’incedere delle retoriche giallo-verdi, covano altre ed altrettanto nocive idee di territorio, a detrimento della diritto ad una città vivibile anzitutto da chi la abita. Riusciranno i semi di resistenza a infestare il discorso pubblico più seducente che c’è?
abo | scritto per l’Almanacco de La terra trema, inverno 2018