“Nutrire il pianeta, energia per la vita”. E’ questo il claim scelto per l’edizione 2015 dell’esposizione universale. Parole, quelle della kermesse che Milano ospiterà dal 1 maggio al 31 ottobre, che alludono ai temi del food e della sensibilità green per offrire copertura “di senso” ad un evento pensato anzitutto per rinverdire l’immagine turistica della città di Milano.
Peccato che il “food” sia appunto un prodotto di marketing (si vende) a differenza dal cibo (che invece si mangia), peccato per i 1600 ettari di territorio fertile cancellati da autostrade inutili e nocive, peccato per i contratti atipici stipulati dai sindacati confederali con contorno di lavoro volontario.
A partire dal 2008, dietro la patina sostenibile cucita sapientemente dalla governance di Expo, abbiamo visto Milano intraprendere la via della rinuncia ad un progetto sul suo futuro. Archiviato il sogno dell’Expo “diffusa e sostenibile” l’edificazione di una fiera novecentesca di 1,5 milioni di metri quadrati, con corredo di matassa autostradale, ha drenato quasi 10 miliardi di risorse dalle casse pubbliche, sottraendole alle politiche di cui Milano avrebbe più bisogno: abitare, mobilità, verde..
Diversamente da quello che la narrazione unica suggerisce, Expo non è un fatto milanese, non parla di cibo (ma per l’appunto di food), non si chiuderà nel 2015. L’esposizione dei padiglioni con cui ciascun paese racconta ai turisti accorsi a frotte le sue colture e culture, è solo apparentemente il cuore del grande-evento. Quello che abbiamo visto dipanarsi sul territorio milanese negli ultimi due anni, è un esperimento di governo del territorio che dalle bonifiche mancate al ricorso smodato agli appalti in assegnazione diretta, ci parla di Expo come laboratorio orientato ad accentrare poteri, istituire eccezioni, anticipare il vuoto di democrazia che informa il decreto SbloccaItalia.
In questo modello l’emergenza si fa consuetudine e la fretta mantra, non problema. La teoria della “mela marcia” con cui politica media e impresa avevano salutato i primi episodi corruttivi, è archiviata sotto il peso di oltre settanta interdizioni per le aziende coinvolte nei lavori.
A meno di un mese dall’apertura dei cancelli della nostra eurodisney gastronomica, ritardi, rinunce, fail nella comunicazione e corruzione stanno offuscando l’immagine di Expo 2015 ed è corretto sfruttare questi inceppi per una contronarrazione della città festivalizzata. Tuttavia la campagna aperta dai soggetti che contestano il grande-evento guarda oltre. C’è una battaglia culturale in corso. Se, a partire dalle giornate di maggio, in molte e molti affermeremo che il lavoro va retribuito sempre, che biologico ed ogm sono due scelte reciprocamente incompatibili, che il pinkwashing cela la solita idea della donna come “angeli del focolare” è inaccettabile, saremo un passo avanti nella comprensione di cosa significa non per Milano, ma per tutti noi Expo 2015.
Brandendo la scure di un’economia del debito, l’esposizione universale traghetta risorse, utilities e la stessa possibilità di decidere delle sorti del territorio. Questo passaggio dal pubblico al privato (senza mai passare dal comune) ipoteca la nostra possibilità di affermare quello che ci serve e che desideriamo. Nessuno si scandalizza se campagna pubbliche come “salviamo il paesaggio” propongono lo stop al consumo di suolo in un paese che divora territorio a suon di asfalto e cemento, eppure il NO all’Expo di Milano suscita reazioni imbarazzate, sostenute dalla costruzione mediatica del nemico pubblico.
L’opzione zero, che ancora oggi gli attivisti della rete NoExpo sostengono, ha portato a casa il successo della lotta contro la nociva e inutile via d’acqua senza rinunciare ad una lettura globale sull’insensatezza dei mega-eventi.
C’è un’attitudine contadina, autogestionaria, di genere, precaria e studentesca in marcia per inceppare l’ipoteca che Expo 2015 rappresenta al suo stesso claim: nutrire il pianeta, energia per la vita.
@abuzzo3 | 14.04.15 |per zeroviolenza.it