Il culto di un’era
Premessa non autografa alla rivista Un’ambigua utopia n. 10
La scienza seziona il tempo geologico con grande cura e, proprio per questo, senza pretese di finitezza. Il taglio delle fette più grandi, eoni ed ere, non ha alcuna presunzione di precisione. Mano a mano che si procede nella dissezione di periodi ed epoche, mano a mano che ci avviciniamo alla scala del tempo storico, lo scandire del tempo si fa più preciso e, la contraddizione è solo apparente, soggetto a dibattito e periodici aggiustamenti.
11700 anni fa è cominciata l’epoca intimamente legata al nostro intervento. Un’epoca il cui start non è segnato dall’avvento dell’uomo ma dentro la cui stratigrafia riconosciamo i segni chimici (innalzamento della concentrazione di CO2 in atmosfera) e biologici (mutamenti nella biodiversità, estinzioni precoci..) del passaggio di Homo sapiens.
Tutto quanto l’umano ha costruito, modellato, in definitiva immaginato, potrebbe sparire in soli 10000 anni. Parliamo delle tracce fisiche, altro discorso vale per quelle chimiche. Non sappiamo dire con precisione “a partire da quando” l’uomo si è fatto marcatore del tempo geologico, forza tellurica oltre che forza storica. Ciascuna delle proposte in campo (si collocano tendenzialmente negli ultimi 528 anni!) rappresenta una sfida tesa a correggere, esplicitare, aggettivare, decostruire, la presentissima definizione del nostro tempo attraverso il lemma Antropocene.
Non è compito di questa rivista, e non perché non ve ne sia bisogno, suggerire un’opzione lessicale preferibile per descrivere il tempo che viene. Non siamo certi che fomentare l’uso pubblico della parola termo- tanato- o capitalocene, come ultimamente in voga, basti a precisare in un sol colpo le molteplici ambivalenze che una definizione di carattere scientifico porta con sé. Per descrivere la grottesca coincidenza di climax e tracollo, benessere e disagio psichico, privilegio e sfruttamento, che l’apice della globalizzazione
sviluppista e finanziaria porta con sé, dobbiamo sì giocare ostinatamente fuori casa per motivi testimoniali. Al tempo stesso possiamo cimentarci in rotte oblique, ucronie necessarie, posture non assertive per esprimere La fine dell’uomo per come lo abbiamo conosciuto. Una fine che non è dell’Uomo né dell’umano. Un ambiguo epilogo, in ogni caso irriducibile ad un’unica dimensione di genere, cultura e classe. Il dispiegamento di un’ecologia politica potrebbe non darsi dentro e contro, ma nonostante una realtà in metastasi.
abo | Milano, gennaio 2020