appunti all’indomani della strage di Ankara
A fuoco
Il concentramento della marcia “lavoro pace democrazia” è per le dieci di mattina nei pressi della stazione ferroviaria. Migliaia di persone affollano già il centro di Ankara reclamando a gran voce la risoluzione pacifica della questione curda, quando due boati successivi rompono, intorno alle 10.45, la tregua armata che da quattro mesi regge il paese. Tregua perché un esecutivo transitorio, orfano di accordi di governo, doveva preparare il terreno per le elezioni anticipate del prossimo 1 novembre. Armata perché la sospensione delle ostilità del PKK, incrinata dall’attentato al comizio del leader HDP Demirtaş (5 giugno) e rotta dopo l’attentato suicida firmato dall’IS il successivo 20 luglio nel centro culturale di Suruç, apre una stagione di violenza le cui vittime civili nel solo Kurdistan turco avevano raggiunto quota 113 già lo scorso venerdì.
Le immagini che (rallentate-zoommate-commentate) scorrono compulsivamente sui media sono sempre le stesse. Le altre sono state requisite nelle redazioni di stampa e televisioni, prima della chiusura, l’ennesima, dei maggiori social network in tutto il paese. La viralità amatoriale prende la via di instagram e delle connessioni in roaming degli internazionali, mentre la sede di HDP (Partito Democratico dei Popoli) viene evacuata e perquisita. Proprio le bandiere di HDP, partito di ispirazione curda che (contro ogni previsione) aveva superato in giugno lo sbarramento del 10% conquistando 80 seggi al parlamento nazionale, coprono i corpi dei partecipanti alla manifestazione ufficialmente convocata da un cartello di sigle sindacali e ong. Allo shock acustico e politico delle esplosioni segue quello degli spari in aria e dei gas urticanti delle forze di polizia che, accorse in piazza prima delle ambulanze, sono ora accusate di aver rallentato indebitamente i soccorsi ai molti feriti deceduti nelle ore successive. Le lancette scorrono rapide sul cruscotto della paura: 10 morti ad Ankara, almeno 20, oltre 36, 78 ma non è confermato. 94. 95. 96 per il governo. 128 nelle stime del partito. 508 i feriti.
Le agenzie, inizialmente orientate all’ipotesi bomba, battono solo nelle ore successive l’opzione dei due attentatori suicidi. Ci vorranno giorni per conoscere una verità, fosse anche solo una mezza verità. Quale che sia la mano (islamista o di stato) è tempo di porgere lo sguardo all’obbiettivo politico della strage più importante della storia turca: il processo di risoluzione del conflitto curdo, l’aumento esponenziale della tensione elettorale, la svolta reazionaria del paese. Sul voto di novembre pesa la rincorsa dell’AKP (partito di R. T. Erdogan) ai 400 voti necessari per modificare in senso presidenzialista la carta costituzionale. D’altra parte, se (contro le previsioni dei più distratti e come già dichiarato un paio di giorni fa) il PKK non ha rinunciato al cessate il fuoco), dal partito nazionalista MHP non giungono dichiarazioni distensive, né la potenza di fuoco dell’attentato pare alla portata del gruppo di estrema destra dei soli Lupi Grigi né della criminalità organizzata.
I fondamentalisti di Daesh impegnati nel massacro di comunità curde, yazide, assire, turcomanne (e l’elenco potrebbe tristemente proseguire) sono d’altronde interessati a rispondere all’ingerenza militare russa, dando un segnale inequivocabile alle forze che sostengono la resistenza, sulla scorta del successo politico e militare dell’autonomia nel Rojava…ma un’ingerenza nell’agenda politica di un governo poco amato quale quello turco appare comunque più che problematica. Quale affresco politico offre dunque la lettura sequenziale dei tre attentati? Quale la matrice ideologica dei fatti di Ankara? Può l’ipotesi degli attentatori suicidi rispondere alle domande giuste invece di promuovere una rinuncia alla comprensione? Oggi non sappiamo chi abbia premuto il grilletto, né chi abbia armato la mano di quelli che la stampa appella genericamente terroristi, non senza ipotizzare spiegazioni fantasiose. Conosciamo i nomi e i sogni di potere di quanti hanno interesse a porre fine al maturo processo di autodeterminazione che, ispirandosi al progetto del confederalismo democratico, punta ad invertire la corsa della Turchia verso il baratro del nazionalismo eversivo.
Fuori fuoco
Per guardare più avanti occorre uno sguardo laterale, dalla e sulla periferia del paese, lontani dall’epicentro nello spazio e appena precedenti nel tempo. Lo faccio a partire dalla carovana di artisti e attivisti #RojavaResiste, che in questi giorni ci vede girare in alto e in basso il Bakur, cantone del Kurdistan settentrionale.
Oggi, di ritorno da Urfa, un sms di riepilogo ci aggiorna sulla situazione del day after: a Silvan, Sirnak, Nusajbin, la tensione è divampata sfociando nuovamente in scontri di piazza. Nel distretto di Lice, 14 militanti sono deceduti nel bombardamento del cimitero dei martiri, a 90km da Diyarbakir, nel luogo in cui fu fondato il PKK stesso. In città si parla di un morto per una granata. Mentre mobilitazioni di HDP hanno percorso pacificamente le vie di Suruç, Urfa e Istanbul, la manifestazione convocata nella città di Amed e partecipata da oltre diecimila curdi, è stata ripetutamente caricata dalla polizia. Nella stessa Ankara, una deposizione di fiori sul luogo del ricordo è accolta con una carica di polizia.
Le associazioni dei lavoratori aderenti alla marcia dell’altro ieri hanno convocato per domani uno sciopero generale: bloccare il paese, perché il terzo ed ultimo giorno di lutto nazionale non richiuda l’accaduto sulla versione dei fatti promossa da parte governativa.
Coprifuoco
Gas lacrimogeni e spari in aria hanno salutato l’avvio del coprifuoco in nove quartieri della città di Amed, le barricate incendiare hanno rallentato e deviato il traffico nelle aree circostanti a quelle chiuse da transenne e mezzi militari. I check-point in ingresso e uscita dall’area, attivi da due giorni, mutano col buio in presidi a difesa degli obiettivi sensibili.
Lo scorso 6 settembre Cizira fu la prima città a subire il coprifuoco. Silopi, Bismil, Silvan, Amed, lo hanno conosciuto “a singhiozzo” nelle settimane successive. La guerra psicologica prende piede anche così: taglio allle forniture idriche ed elettriche, impossibilità a reperire generi di prima necessità, impedimento ad uscire di casa e sapere quello che accade fuori le mura, mentre spari e boati accendono le vie limitrofe. L’incertezza e la paura sono la cifra stilistica del diniego a lasciare la propria abitazione: parliamo qui di un dispositivo punitivo, funzionale a una recrudescenza delle ostilità, alla copertura di soprusi, alla cultura della tensione e del sospetto permanente.
“Gli autori del massacro, risiedono nel palazzo del sultano” recita uno striscione in conferenza stampa a Suruç. Il calore sviluppato dal primo scoppio ne accende di successivi. Il fragore generato dall’ultima detonazione, cementato dagli arresti delle ultime ore, rischia di figliare un’ipoteca di stato sul processo di Liberazione del popolo curdo, un popolo in lotta per la libertà e l’uguaglianza di tutti i popoli che abitano questo tormentato territorio che in età scolastica conoscevamo come culla della civiltà.
abo, per #RojavaResiste | 13.10.15 | pubblicato su Carmilla On Line