Oggi teniamo un attimo da parte il polveroso meta-dibattito sul referendum (strumento o parvenza di democrazia diretta, compimento o tramonto di una spinta di cambiamento, matrice di rilevanti… o irrilevanti modifiche alla normativa vigente) per inerpicarci sul pressoché inesplorato terreno della questione energetica. È all’indomani dell’esito referendario del 17 aprile, quando le carte sono state date e ben prima che l’appuntamento costituzionale e i referendum sociali della prossima primavera riducano nuovamente il tema in forma di quesito, che si apre lo spazio per una riflessione sull’opzione della decarbonizzazione dell’economia..
Del pacchetto energetico che il Belpaese ingoia ogni anno per le attività produttive, agricole, industriali, di trasporto e di consumo, almeno quattro parti su cinque sono prodotte altrove, in altre parole importate. Una piccola porzione di questo import deriva, e la cosa era insopportabile all’epoca di Cernobyl come lo è a quella di Fukushima, dalle centrali nucleari d’oltralpe. Un’altra porzione deriva da fonti più o meno “rinnovabili” e assimilate, la fetta più consistente proviene inequivocabilmente da petroliere e tubazioni di gas metano.
Eccezion fatta per il nucleare, i cui sogni di “gloria” sono stati nuovamente spenti non più di un lustro fa dall’incidente giapponese, il mix di fonti prodotte in house, su terra e off-shore, non è poi diverso. Voi desiderate a questo punto eloquenti, colorate, rassicuranti infografiche, utili a riassumere il tutto in pochi dati percentuali. Se non le trovate non fatevene un cruccio. La sovrastima delle fonti “pulite” è un esercizio di stile della green-economy che si gioca sull’equivoco della termovalorizzazione, sulla diffusione di impianti eolici e fotovoltaici industriali che affollano crinali e pianure, sulla combustione di biomasse che ipotecano la sovranità alimentare. Se c’è una giungla resistente al taglio, è quella di un’informazione chiara e aperta, circa la composizione presente e gli scenari futuri della nostra torta energetica.
I punti caldi della strategia energetica
A questo proposito la SEN, la Strategia Energetica Nazionale varata nell’anno domini 2013, ci offre qualche indicazione prontamente riveduta e corretta dal decreto Sblocca Italia del novembre 2014, quindi dallo stesso governo Renzi all’interno della vigente legge di stabilità, nel goffo tentativo di mettere i bastoni tra le ruote alla ribellione delle regioni più toccate da pozzi e trivelle. E qui veniamo ai punti caldi che potremmo così riassumere:
- Comunque vada, l’unico quesito sopravvissuto alla sforbiciata di stato riguardava l’eventuale proroga del 12% delle estrazioni del paese. Queste ultime, le coltivazioni di combustibili fossili nel sottosuolo e nelle acque del Paese, non rappresentano che poco più di un decimo dei consumi complessivi del nostro fabbisogno nazionale. Da un punto di vista meramente numerico parliamo del nulla, si pensi che le scorte di greggio e gas del sottosuolo patrio non sosterrebbero da sole le attività dello stivale che per una manciata di settimane (petrolio) o di mesi (gas metano).
- Nei quesiti scomparsi ritroviamo il tema dell’attribuzione di competenze e del piano delle aree che sono oggi scomparsi dal dibattito ma congiungono il discorso sui pozzi al tema della democrazia negata, della strategicità dell’approvvigionamento fossile, dei propositi di lungo periodo. È su questa contraddizione con le indicazioni, pur blande, contenute nel documento conclusivo della Cop 21 di Parigi, che si gioca un importante turno della partita.
- Nonostante le rassicurazioni delle lobby coinvolte, le trivellazioni in mare contaminano le acque circostanti anche in assenza di forti pressioni in gioco o di incidenti clamorosi come quello della Deep Horizon nel Golfo del Messico nell’aprile 2010. Lo rivela un’indagine di Greenpeace (marzo 2016) basata su dati ufficiali ISPRA e Ministero dell’Ambiente a ridosso di oltre trenta piattaforme situate in Adriatico.
- L’opzione zero (transizione alle rinnovabili pulite) non mina i posti di lavoro né destabilizzerebbe i mercati carboniferi, così come le royalties (7% sull’estrazione del petrolio e 10% su quella del gas) non portano alcun vantaggio sensibile all’economia del paese, non raggiungendo oggi i 400 milioni di euro l’anno.
- Il nodo della filiera non sono le trivellazioni all’interno delle 12 miglia (22km circa), da una parte perché il 34% delle coltivazioni di combustibili fossili sono a terra e il 36% oltre questa soglia, dall’altra perché (come anticipato in apertura) l’investimento in condotte (il TAP su tutte) e in stoccaggi (specialmente in pianura padana) si fonda sull’importazione di gas caucasico e dell’Azerbaijan.
- La tutela di turismo, paesaggio, biodiversità e diritti dei lavoratori, non si possono conquistare a scapito di territori privi di anticorpi. Occorre sostenere una transizione verso un mix di fonti pulite e diffuse, quali: geotermia, maree, biomasse, eolico, fotovoltaico.. Da non confondere con impianti industriali e grandi opere calate dall’alto, né con soluzioni all’idrogeno (che è un vettore e non una fonte).
- Quello dell’estrazione è un settore già fortemente ridimensionato nel nostro paese, sostenerlo a colpi di decreti, proroghe e concessioni significa smentire gli impegni in termini di ricerca e sostegno alla transizione energetica preso in occasione della Cop 21 dello scorso dicembre ed il suo appello alla decarbonizzazione entro fine secolo.
Fermiamo le false soluzioni
All’opposto della logica estrattiva e finanziaria, che ispira l’approvvigionamento a scopo speculativo di gas estratto nei bacini che si affacciano sul Mediterraneo per poterlo rivendere nei momenti d’instabilità dei mercati, è tempo di sperimentare economie circolari e situate nel tessuto produttivo e naturale dei territori. Immaginate se, invece di sostituire i campi coltivati con bioetanolo, si recuperassero gli sfalci delle marcite risicole della Lombardia (che macerano in acqua producendo metano e CO2) per produrre gas in camere controllate e si recuperasse il calore tramite cogenerazione sul posto per il riscaldamento di acqua e ambiente. Non è che un esempio, al tempo del peak oil, dell’attenzione che richiede la rinuncia progressiva al petrolio da una parte, alle false soluzioni dall’altra. La scommessa è tanto chiara quanto ardita: la forma delle città, le dimensioni del manto stradale, la trama di cavi e tubi che scorre sotto i piedi, la tensione a cui scorre la corrente nei tralicci, sono tutte manifestazioni di una civiltà fondata sulle fonti fossili e modellata sul loro, e sul nostro, sfruttamento.
In gioco, assieme alla salute, all’integrità di un territorio, alla tenuta del clima, c’è il ripensamento di una modernità che ha fallito l’obiettivo del benessere collettivo, puntando tutto sul vampirismo a breve termine di riserve energetiche accumulate in milioni di anni.
Lotte urbane e rurali, per l’acqua e l’energia pulita, contro grandi e piccole opere, vedono nella sfida della transizione energetica un’ipotesi di convergenza senza precedenti. Un nuovo umanesimo, liberato dall’antropocentrismo industriale, può fare luce sulle tappe necessarie a contrastare il biocidio e aprire laboratori di sovranità popolare, cimentandosi anche sul terreno poco battuto di una produzione e di un consumo energetico differente.
Non sappiamo se questo basterà a placare la febbre del pianeta o ad alleggerire in tempi certi la concentrazione di micro-particolato che galleggia sulle grigie città, sappiamo di non poter più procrastinare la ricerca di un’autodeterminazione che è il primo antidoto alla logica concentrazionaria, finanziaria ed estrattivista che conduce alla destabilizzazione per mezzo della guerra per il controllo delle risorse energetiche.
Su questa tema il Laboratorio Off Topic ha appena pubblicato Sblocca Italia. Dalle trivelle agli stoccaggi di gas. Neocolonialismo, speculazione, nocività, democrazia, Lu:Ce edizioni, Torino, 2016, pp. 92, € 9,00).
abo | apparso su A/Rivista anarchica n.407| maggio 2016