Tra novembre e dicembre scorsi, l’assenza prolungata di precipitazioni ha favorito l’accumulo di polveri sottili nell’aria. Misure emergenziali sono state intraprese, ma serve una risposta organica, non temporanea e popolare ai problemi della mobilità pubblica, dell’iper-consumismo e dell’inefficienza energetica. Tralasciando le proposte illusorie della green economy.
Nei giorni della canea mediatica stavamo tutti con lo sguardo in sù, a interrogare il cielo dall’alto delle nostre conoscenze scientifiche. L’espressione era quella severa di chi ha maturato una spiccata sensibilità sul tema, dopo aver sfogliato due tabelle di dati ARPA. Archiviato il tema a mezzo stampa, siamo tornati alla vita di ogni giorno: emergenza risolta. Sì perché l’affaire “PM10”, acronimo dell’eccedenza di microparticolato presente nell’aria di molte grandi e piccole città del paese, è stato trattato dalla politica i 10 giorni necessari a dare voce a molti, tentare frettolose misure straordinarie, varare qualche milioncino per mettere la pezza e passare ad altro alle prime gocce di pioggia.
Nel solo 2015, i 35 giorni di sforamento del limite di legge (poco più che un parametro della qualità dell’aria che quotidianamente respiriamo) sono diventati oltre 100 nella sola Milano, cui si sommano gli sforamenti di Roma, Napoli, Torino, Brescia e via discorrendo, in un preoccupante elenco che potrebbe occupare il restante spazio a nostra disposizione. La stagione invernale è il momento più critico per le centraline di rilevazione: in Lombardia, dopo la prima decade di novembre, non ha piovuto per 50 giorni consecutivi (non accadeva da un quarto di secolo) e il ciclo anomalo di alta pressione ha certamente contribuito a lasciare sul terreno gli inquinanti che giorno dopo giorno produciamo per sostenere stili di vita, produzione e consumo inequivocabilmente insostenibili.
Nei grandi centri urbani l’imputato numero uno è il traffico cittadino. In dicembre, quando l’opinione pubblica stacca lo sguardo dal cielo per interrogare le istituzioni locali, un rapido palleggio di responsabilità partorisce una serie di misure straordinarie (targhe alterne, blocco del traffico, sconti sui mezzi pubblici, abbassamento di due gradi del riscaldamento degli edifici) tarate sul territorio di competenza. Il ciclo d’intervento si chiude nei giorni successivi con lo stanziamento di 12 milioni di euro (avete letto bene, non miliardi!) da parte del governo in attesa di un piano triennale per la mobilità pubblica, l’efficientamento energetico, la diffusione delle aree 30.
Questo in estrema sintesi quanto abbiamo osservato: dati allarmanti, sciorinare di pareri e paure sulla stampa, misure emergenziali locali, misure emergenziali nazionali, arrivo dell’agognato maltempo, scomparsa del problema fino al prossimo episodio allarmante. Il ciclo dell’emergenza, con sintetiche variazioni sul tema, è destinato a ripetersi uguale a se stesso, nell’arco di pochi mesi.
Facciamo ora un passo. Non un passo indietro, un passo al di fuori della logica emergenziale che ispira la lettura del problema e la lista della spesa dei palliativi. Partiamo dal PM (2,5 e 10) che, in forma di controcanto al tema della CO2 in ambito internazionale (si legga in “A” 404, febbraio 2016, lo speciale sulla COP21) è considerato nelle rilevazioni giornaliere la cartina al tornasole della qualità atmosferica del nostro ambiente di vita.
Anzitutto in Europa (dati Agenzia Europea per l’Ambiente) i responsabili delle ingenti emissioni di particolato sono i riscaldamenti degli edifici, le industrie, quindi il trasporto su gomma. Quest’ultima voce va ulteriormente scomposta: emissioni da combustione, consumo delle parti meccaniche (freni, copertoni…) e consumo del manto stradale. Queste poche informazioni sarebbero sufficienti a comprendere che il fermo temporaneo dei veicoli, così come il tetto di circolazione in città a 30km/h, non centrano la dimensione e l’articolazione del problema.
Approfondendo ulteriormente l’argomento è possibile notare come l’insistente campagna di rinnovamento del parco auto (ecoincentivi per la rottamazione, stop ai veicoli euro zero, uno, due…) già ampiamente sbilanciato sul trasporto privato, è stata inficiata negli ultimi 10 anni dal boom dei riscaldamenti autonomi, specie di quelli basati su legna e pellets. Scavando ulteriormente a ritroso dalla mobilità al riscaldamento, e da quest’ultimo all’industria, è d’interesse notevole la disamina del decreto “milleproroghe”, con cui il governo ha offerto un anno “bonus” di sforamento delle emissioni alle grandi centrali di produzione energetica (sopra i 50MW), fuori norma da una decade piena.
Fin qui abbiamo detto dell’inadeguatezza e della contraddizione di quanto realizzato in ambito istituzionale. Una contraddizione che impatta sulla salute, oltre che sulla qualità del territorio, tranciando ogni anno in Italia 25mila vite. Cosa si dovrebbe invece fare?
La gomma e il ferro
Ripartiamo nuovamente dalle auto: la mobilità privata, seppure in maniera non univoca e fuorviante come narrato, è parte integrante del problema. Se i motori in circolazione inquinano effettivamente molto meno di quindici anni fa (o meglio, bruciano meglio) è anche vero che il parco macchine circolante è eccessivo, viaggia a mezzo carico, non si combina con forme di spostamento leggere, ed è composto di auto sempre più grosse e pesanti, contribuendo in forma significativa alla produzione di PM non derivante dalla sola combustione. Questo modello va cestinato per fare spazio ad un investimento importante sulla mobilità pubblica ed ecologica nei centri urbani e sulla riscoperta della rotaia economica sui grandi spostamenti. Le gomma e il ferro si potrebbero rendere complementari con parcheggi d’interscambio ed un occhio di riguardo alla multimodalità: bisogna incentivare anche chi vive, studia e lavora in città (anche provenendo dalla regione) a spostarsi con un parco di mezzi pubblici e bici per liberare l’urbe dalle automobili.
Il corollario di zone 30 (queste automobili non sono fatte per andare a 30 all’ora!) e blocchi temporanei (a Milano utili a pagare la spesa con 850 multe comminate su quasi 5mila controlli), non ha alcuna utilità per contrastare nel breve termine il particolato, ma culturalmente può segnare un passo avanti verso la ciclabilità urbana. In seconda battuta, guardiamo all’industria e alle centrali: dobbiamo archiviare gli incentivi alle fonti fossili che pesano a detta del FMI (tra costi diretti e sanitari) per il 6,5% del PIL mondiale, e alle rinnovabili sporche (termovalorizzazione, biomasse…), quindi piegare i decisori a porre un tetto al diritto d’inquinamento, in rispetto ad una qualità della vita compromessa per via di discariche, cave, trivelle, stoccaggi, inceneritori e via discorrendo. Sempre a ritroso nella scala delle fonti d’inquinamento, l’economia dei riscaldamenti autonomi ha aperto un mercato dell’inefficienza e dell’atomizzazione che s’è rivelato a dir poco scadente. Ad eccezione dei luoghi in cui non esistono alternative, la giusta campagna per lo stop al consumo di suolo va gemellata ad una per il rinnovamento radicale del patrimonio edilizio in direzione di una migliore efficienza energetica e di un sensibile abbattimento delle emissioni inquinanti.
Una nuova prospettiva ecologica
Mentre il piano di governo si attarda nella ciclica ripartizione di competenze tra aree metropolitane, provincie che vanno e cantoni e aree vaste che vengono, occorre fissare tre punti di ragionamento capaci di contemperare azione dal basso e metodo d’intervento:
1) Le uniche misure credibili per limitare la concentrazione di particelle inquinanti e gas climalteranti, sono quelle strutturali. L’emergenzialità crea danni e false soluzioni, temporizzando il problema fino al prossimo episodio appetitoso. Inoltre mentre la fretta agevola l’accentramento delle decisioni, il tempo agevola le comunità nel coordinamento di proposte e iniziative di contrasto alle nocività.
2) La giustizia climatica e ambientale, anche quando si pone di fronte a sfide nazionali o globali, non può essere appannaggio della scienza e della tecnica ma va rivendicata a partire da un’attitudine popolare, da un ecologismo maturo e radicale, liberato dalle tendenze wasp e occidentaliste, dall’economicismo da antropocene e da facili ripiegamenti su soluzioni individualizzanti.
3) La necessità di un intervento multiscala e la natura popolare di una risposta sincera al problema che la nostra modernità ci pone, ci devono insegnare a non riporre alcuna fiducia nelle soluzioni pensate per dare fiato ai mercati con la copertura della sensibilità all’ambiente. Dalle COP alle campagne per la rottamazione passando per gli incentivi alle “sostenibili” o ai prodotti verdi nella rosa di possibilità offerte dalla grande distribuzione, la green economy offre ed offrirà soluzioni di mercato sempre più raffinate per dare fiato ad un’economia in profonda crisi d’identità.
Una nuova prospettiva ecologica, fondata su territorio, salute e clima, deve assumere le lotte contro grandi opere, infrastrutture energetiche fossili e privatizzazione dei beni comuni come elementi di convergenza, mutuo appoggio e sperimentazione di gestione comunitaria della decisione. Per cominciare una boccata d’aria, e che sia buona.
abo | marzo 2016 | apparso su ARivista n. 405