Aria: prendiamo le misure, non le distanze.

Caldaie, motori a scoppio e industria sono le cause prevalenti della concentrazione di microparticolato nell’aria che respiriamo. La verifica e la comunicazione della qualità dell’aria sono state sino ad oggi appannaggio rispettivamente di enti pubblici e media. Che sia giunto il tempo di ritirare la delega in bianco?

abo
6 min readMar 6, 2019

L’allarme giornalistico risuona, periodico e atteso, alle orecchie indifferenti degli abitanti della city: “a causa dello sforamento continuo per cinque giorni della soglia di legge…” oppure “Milano è in violazione della normativa europea, dopo il superamento dei 35 giorni di sforamento previsti” e così via. In materia di PM10, per dirne una, l’Unione Europea ci offre una tabella di agevole lettura: nelle 24 ore la concentrazione tollerabile di microparticolato è di 50 µg/m³, nell’anno la sua media deve stare sotto i 40 µg/m³ in media e il numero di superamenti della soglia è di 35 giorni, sempre calcolati su base annuale. Oltre queste soglie di sopportabilità delle cosiddette “polveri sottili” entra in partita la Corte di giustizia e, onde evitare la messa in mora e la conseguente figuraccia, le città si attrezzano sul breve termine con misure di blocco (parziale, totale, domenicale, a targhe alterne..) delle auto. Sul tempo lungo incentivi all’acquisto di auto e caldaie meno inquinanti, si avvicendano a politiche di ammodernamento del parco mezzi per il trasporto pubblico locale e restrizioni all’uso dei mezzi più vetusti nelle aree centrali.

Flashback. Piuttosto di precipitare sui rimedi istituzionali e la loro utilità, come accertare in maniera puntuale e georeferenziata la consistenza del problema? L’accertamenteo della presenza di inquinanti in atmosfera (sì, perché oltre al PM10 la verifica della qualità dell’aria è complicata dalla persistenza di molti altri inquinanti, su tutti PM2,5, NO2, SO2, CO, O3, C6H6..) è effettuato da una trama di enti che ha al suo vertice l’Agenzia per la protezione dell’ambiente, a livello regionale l’ARPA, quindi le agenzie locali presenti sul territorio, ad esempio a Milano è attiva l’AMAT (Agenzia mobilità ambiente e territorio, che fa capo al Comune). La sensoristica installata a tappeto dentro e fuori le mura delle città, ci restituisce un’impressionante mole di dati real-time, presto corredati di bollini verdi, gialli e rossi, a significare la pericolosità di quanto attraversa di notte e di giorno i nostri temerari polmoni. Le basi di dati vengono infine pubblicate online e “restituite” in forma di open-data alla cittadinanza, in ossequio alle linee guida di trasparenza e partecipazione sancite dalla Convenzione di Aarhus nel lontano 1998.

Fin qui il ripassone dei fatti noti. Ora tentiamo un’ipotesi di ordine diverso. Diciamo che una cornice istituzionale di questo tipo, unitamente alla sua consolidata narrazione mainstream, piuttosto di avvicinarci coralmente alla ricerca di soluzioni radicali ci abbia avvicinato all’ineluttabilità di un fenomeno troppo impalpabile per essere compreso, contrastato, superato. Diciamo, sempre per tentare un esercizio di stile, che se l’approccio tentato sin qui ha premiato soluzioni interne al primato della ragione economica (accelerando il tasso di sostituzione di macchine, mezzi, fabbriche..) un diverso sistema di pensiero possa germinare altre e nuove ipotesi di lavoro, per rispondere ad una sfida dal costo di vite, ambientale e sanitario assolutamente insostenibile.

Immaginiamo dunque di mettere in campo un progetto tanto ambizioso da ribaltare la logica della produzione, analisi e diffusione dei dati, non con l’orizzonte di sostituirsi né di contestare la validità dei dati oggi disponibili ma di valorizzare questa acquisizione, di riappropriarcene, di farne quindi strumento autoprodotto per la nostra vertenza per un’aria che valga la pena di essere respirata. Imparare a produrre, registrare, liberare e leggere i dati può esorcizzare la loro scomoda onnipresenza? Forse no, eppure ci può donare una sbirciata dentro “la macchina del quantitativo”, una vista comunque utile a posizionare il fatto numerico all’interno di una cornice politica.

Da dove si comincia? La piattaforma da cui voglio partire è tedesca e risponde all’indirizzo https://luftdaten.info/ Qui sono collezionati i dati in tempo reale rilevati da oltre 6000 sensori concentrati in europa continentale ma disseminati un po’ ovunque nel mondo. A margine della mappa principale, e dei dati che vi si possono leggere ed estrapolare, torniamo prepotentemente al piano di realtà con una call che “convochi” gruppi di base, individualità, spazi sociali, che insistono sul territorio ampio di una città o di un’area metropolitana per tessere la trama dell’analisi qualitativa dell’aria che condividiamo. Attorno alla collezione pubblica dei dati prodotti, senza alcun abbandono fideistico nei confronti del fatto quantitativo e tenendo in considerazione le opportune variabili che sono proprie dei fenomeni complessi, possiamo provare a porre sul banco da laboratorio la qualità delle politiche pubbliche in fatto di mobilità, riscaldamento, qualità dell’aria nel contesto urbano.

Probabilmente abbiamo bisogno di questo anche per convincerci alla disamina dello storico dei dati già liberamente disponibili, nel caso di Milano, dal 2004.

Attorno a questa prima lettura temporale possiamo sviluppare ulteriori layer d’indagine, quali alert automatici in caso di sfondamento per più giorni delle soglie di attenzione o di particolari picchi, piuttosto che info-data interattive che stimolino altri a produrre nuovi ragionamenti e pratiche in direzione di una più ampia campagna di sensibilizzazione e azione sul tema dell’aria da respirare, nella più ampia cornice dei cambiamenti climatici e dell’apporto che scelte politiche e stili di vita danno alla giustizia sanitaria così come al surriscaldamento globale. Oltre questo primo step è forse necessaria una riflessione più ampia sulle prospettive dell’azione climatica e della definitiva rottura della cornice semantica dell’antropocene e della sua distorta assegnazione di comuni responsabilità “di specie”, in un mondo che non offre pari opportunità di scelta e di vita. Su questo apparente puntiglio semantico si sono espressi in molti e più preparati del sottoscritto. Nella prefazione al volume “Antropocene o capitalocene?” di Jason W. Moore, così si esprimevano E. Leonardi e A. Barbero:

“evidente, quindi, che Antropocene non sia solo il nome di una nuova epoca geologica, ma anche quello di un inedito regime di governance dell’ambiente globale. Occorre dunque prestare attenzione critica al rischio che il concetto venga fagocitato nel vortice post-politico della tecnocrazia globale”

L’orizzonte possibile? Ad esempio quello della candidatura meneghina alla COP 26, la Conferenza dell’ONU sul “climate change”, che si terrà tra 500 giorni circa. Una candidatura, attenzione, che è irriducibile alla sola agenda della città turistificata ed eventificio, piuttosto che alla legacy di medio termine dell’esposizione universale più contestata di sempre. Il sindaco Beppe Sala si è dapprima posizionato alla vice-presidenza del network internazionale di città “resilienti” dal nome C40cities, quindi ha abbracciato la guerra ai motori diesel al cuore della sua politica per implementare la congestion charge della città adottando “area b”, oggi tende la mano al treno delle COP perché il dente duole nel solco che si è creato tra il forte attivismo propagandistico e l’esito delle politiche pubbliche sin qui messe in campo per contrastare la persistenza di sostanze inquinanti in città.

Nel linguaggio comune l’ora d’aria evoca il tempo che un detenuto può passare a fare movimento al di fuori dello spazio angusto della cella che gli preclude ogni altra libertà. Ogni ora di libertà va agognata, pretesa, conquistata se necessario. Eppure il saldo della nostra libertà non si può dare sul mero calcolo delle ore, quanto sulla nostra capacità di piegare il discorso pubblico in direzione di quella che gli anglofoni definiscono la “extinction rebellion”, la ribellione alla soluzione unica del baratro verso cui la crisi ecologica ci sta rapidamente spingendo.

abo | apparso su A/Rivista | Marzo ‘19

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